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graffiti_pompeiani
13 juin 2006

ITER CAMPANUM, altera pars

CAUDIUM

Approfittiamo del passaggio di un commerciante sannita, che sul suo carro ci  riporta sulla via Appia, da noi lasciata nei pressi di Capua.

Giungiamo a Caudium verso il tramonto. Perché Caudium si trova  sulla via Appia  a 12 miglia circa  di distanza dalla città di Benevento; praticamente è al centro della Valle Caudina, vallata fertile ed amena, ricca di aziende agricole, artigiane e commerciali, ed ha un notevole interesse strategico, controllando lo sbocco della valle verso Benevento. Così leggiamo nella guida turistica che abbiamo con noi, [la Tabula Peutingeriana e la Geografia di Strabone] e nella quale sono riportate anche notizie sugli abitanti, sui loro usi e sulla loro storia. La Valle Caudina è limitata dal Monte Taburno  [altitudine 1300 m.s.l.m.] a nord-ovest e dai monti del Partenio da sud-est a sud-ovest.

I Caudini sono tra le tribù dei Sanniti quelli più ad occidente avendo consolidato nei secoli passati la loro posizione  ai margini della pianura campana.  Città  caudine  sono anche quelle che si trovano a ovest del Volturno:Caiatia, Trebula e Cubulteria.  I Caudini vivono fra le montagne ai margini della pianura campana (Monte Taburno e Monti Trebulani) nella valle dell’Isclero e lungo il tratto centrale del fiume Volturno.

                            Prospetto della Valle Caudina: incisione di C. Pignatari 1778

Stanchi del viaggio ci rechiamo subito in una caupona; qui ce ne sono molte e abbiamo solo l’imbarazzo della scelta. La nostra attenzione è attirata da un’insegna alquanto strana posta sulla porta d’ingresso di una di queste locande: un giogo di lance (subjugatio). Silvie ci guarda sorridendo ed esclama: “Entriamo alle Forche Caudine!”. Il locale è accogliente. Non è certo la villa di Cocceio, quae est super Caudi cauponas, e che accolse tempo addietro il poeta Orazio e i suoi amici in viaggio per Brindisi. Qui non ci sono le cameriere del thermopolium di Asellina a Pompei, ma un signore  bello grosso è dietro il bancone.

Nell’attesa che ci servano la cena, Silvie ci fa una dotta disquisizione sui Sanniti. A scuola ha seguito un corso monografico sui popoli italici , che è stato, a suo parere, molto interessante:

“Sono un antico popolo italico di origine composita. In verità oggi sono tutti cittadini romani ma prima dell’unificazione  le genti che vivevano sugli altipiani del Sannio, nell'Appennino meridionale, appartenevano alle tribù dei Caraceni, Pentri, Caudini e Irpini”.

“Mi pare, - soggiunge Tullia-, che furono molto avversi ai Romani”. E Silvie riprende la sua dotta esposizione: “Per il controllo del territorio campano combatterono contro Roma le cosiddette guerre sannitiche, che durarono dal 343 al 290 a.C. La prima, piuttosto breve (343-341 a.C.), si risolse a favore dei Romani. La seconda, che si protrasse dal 326 ca. al 304 a. C., vide la sconfitta dei Romani alle Forche Caudine (321 a.C.). Nel 304 a. C., tuttavia, i Sanniti dovettero riconoscere la supremazia di Roma, che vinse infine la terza guerra (298-290 a.C.). I Sanniti combatterono poi a fianco di Annibale durante la seconda guerra punica (218-201 a.C.) e si ribellarono nella guerra sociale del 90 a. C., per poi allearsi con Caio Mario. Sconfitti infine dal generale romano Silla (82 a.C.), furono romanizzati o venduti come schiavi”.

Juliette, più interessata all’aspetto etnografico, vuole sapere da Silvie qualcosa sulla loro etnia: “ Questo antico popolo italico, appartenente al gruppo degli Osco-Umbri è assai affine ai Sabini, se non proprio una loro propaggine. Insieme con altre tribù consanguinee e, forse, in seguito a primavere sacre, in un'epoca relativamente tarda migrarono dalla Sabina nel territorio che da essi prese, con approssimazione di confine, il nome di Sannio.

Rudi e bellicosi montanari, dediti alla pastorizia e all'agricoltura, vivevano in centri rurali, spesso non difesi da mura e difficilmente identificabili, governati da propri magistrati (meddices). Le tribù più importanti  erano riunite in una confederazione che eleggeva un capo militare supremo in caso di pericolo o di imprese di guerra (embratur in osco, imperator in latino).

Nel V e IV sec. a.C. i Sanniti apparvero sulla scena della storia dell'Italia centromeridionale divisi in due gruppi: quelli occupanti la zona litoranea tra Ortona e il Gargano e il retroterra montuoso e quelli stanziatisi con la forza nella zona digradante verso il mare tra il Volturno e il Silaro, che si impadronirono di Capua (donde il nome di Kappanòi, Campani) e di Cuma.

Se i primi sembra non avessero mutato di molto le loro condizioni tradizionali, questi ultimi, fusi con gli Opici (Osci) e sovrappostisi agli Etruschi e ai Greci, si erano notevolmente evoluti e continuavano nella loro espansione, movendo verso sud, dove, mescolatisi alle popolazioni locali, costituirono i nuovi popoli dei Lucani e dei Bruzi.

                                            Nola:Guerrieri sanniti (tomba dipinta)

Molti poi, passati in Sicilia come mercenari, ebbero una parte importante, anche politica, nelle vicende dell'isola”.

“Ma come si spiega –interviene Tullia-  il contrasto con Roma?”. La domanda è calzante e Silvie dà prova di conoscere bene la storia: “ Il primo rapporto dei Sanniti con Roma fu un patto di alleanza contro il comune pericolo dei Galli (354 a.C.). Circa un decennio dopo (343 a.C.), come inevitabile conseguenza della contemporanea espansione di due Stati agguerriti, ebbero inizio le ostilità che nel corso di un cinquantennio portarono alla sottomissione dei Sanniti ai Romani.

Il conflitto si svolse in tre fasi (guerre sannitiche), sulle quali, specialmente sulla prima (343-341 a.C.), le notizie sono piuttosto confuse. Minacciati dall'invasione dei Sanniti della montagna, gli abitanti della Campania, Capuani e Sidicini, sollecitarono l'aiuto di Roma offrendosi come sudditi (dediticii).

L'ubertosa pianura campana e il bacino metallifero delle Mainarde erano una posta troppo allettante perché la richiesta non venisse esaudita. Dopo tre battaglie, o forse soltanto dopo due, l'una a Suessula (odierna Cancello), l'altra al Monte Gauro (odierno Monte Barbaro, presso Pozzuoli), la lotta si risolse con esito sfavorevole per i Sanniti, costretti a rinnovare il trattato del 354, ad abbandonare Capua e a permettere la deduzione di colonie latine (Cales nel 334 e Fregelle nel 328) lungo le strade delle loro tradizionali incursioni dai monti verso la pianura.

Ma la prima guerra sannitica non fu che il preludio della seconda (326-304 a.C.), lunga, accanita e sanguinosa. I Sanniti, sotto la guida di Caio Ponzio, riuscirono a battere e a umiliare alle Forche Caudine, presso Caudio, gli avversari addentratisi nel loro impervio territorio (321) e a sconfiggerli di nuovo al passo di Lautule presso Fondi (315 a.C.); vinti però nelle vicinanze di Terracina (314 a.C.) e, dopo alterne vicende, nella zona di Isernia e di Boviano (305), si ridussero ormai stremati negli antichi confini, conservando l'indipendenza, ma circondati da ogni parte da popoli legati a Roma.

La guerra decisiva, la terza (298-291/ 290 a.C.), riprese in occasione di un'invasione dei Galli in unione con gli Etruschi nell'Italia centrale. I Sanniti, dopo combattimenti isolati, si congiunsero a essi con il grosso delle forze a Sentino in territorio umbro. Qui, in una durissima battaglia (295 a.C.) che vide in campo i più forti popoli dell'Italia antica, i Romani riportarono un'importante vittoria, che apriva loro la strada dell'unificazione della penisola.

Da allora i Sanniti, decimati nella popolazione ed esausti di forze, cessarono di essere avversari temibili, venendo via via sottomessi e privati di parte delle terre. Solo pochi cantoni portarono aiuto a Pirro e ad Annibale; invece nella guerra sociale, insieme con i Lucani e gli Apuli, furono a capo dell'insurrezione degli Italici del meridione. Il colpo mortale alla loro esistenza come entità politica ed etnica venne inflitto da Silla (82 a.C.), che, accomunandoli nella strage di Porta Collina ai mariani, per i quali avevano parteggiato, li distrusse in massima parte e confiscò i loro territori, perché servissero a deduzione di colonie e all'assegnazione di terre ai veterani”. Mario  ascolta con attenzione l’esposizione dell’amica, ma con garbo la interrompe: “Oggi, come potete vedere, il Sannio è una regione dell’Italia e i Sanniti sono cives optimo iure”.

La “lezione di storia” ha distolto l’attenzione degli amici dal curiosare con lo sguardo i clienti della caupona, scherzosamente da noi definita “ Le Forchette Caudine”.

Ad un tavolo c’è un signore che beve del vino da una coppa, sembra assorto in suoi pensieri. Quand’ecco giunge nella locande un mercante. Dall’aspetto e dalle vesti che indossa con una certa ricercatezza sembra uno che viene dalla città di Roma; ne abbiamo la conferma  non appena apre bocca e comincia a parlare. Vi sono, infatti, persone che si dilettano nell’usare un modo di parlare rustico e contadinesco, per dare al loro discorso, condotto con questo accento, una più spessa patina di antichità [Cicerone, De oratore, 3, 40]:

Ego denique vespera, dum polentae caseatae modico secus offulam grandiorem in convivas aemulus contruncare gestio, mollitie cibi glutinasi faucibus inhaerentis et macula spiritus distinentis minimo minus interii…”.

Il signore che sembrava tanto assorto nei suoi pensieri rivolto a quello che sta parlando, esclama:

Parce, in verba ista haec tam absurda tacque immania mentendo”. E l’altro quasi arrabbiato: “Sed ut prius noritis, cuiatis sim, qui sim [Augustulus mihi est nomen et Roma venio]; audite et quo questo me teneam:

melle vel caseo et huiusce modi cauponarum mercibus per Campaniam Apuliam Samnium ultro citro discurrens.  Comperto itaque Benevento, quae civitas cunctae Samnii antepollet, caseum recens et sciti saporis admodum commodo pretio distrahi, festinus adcucurri id omne praestinaturus”. (Apuleio, Metamorphoseon I, 2-4-5)

L’altro fa un gesto con la mano, quasi a dire “ ma va là !” e continua a sorseggiare il vino dalla coppa.

Su un alto sgabello davanti al bancone  siede un signore dall’aria distinta, alquanto avanti negli anni, e parla con due altri suoi amici più giovani in piedi accanto a lui con in mano dei pocula. I due giovani incalzano: “Come andò a finire  con i Romani? Dai raccontaci ancora delle guerre dei Sanniti e della vergogna romana alle Forche Caudine!”. E l’anziano tira un sospiro, come per prendere fiato prima di una corsa a piedi: “Miei cari giovani amici, –esordisce quasi ex cathedra- dovete sapere che tanto tempo fa…

Caius Pontius exercitu educto circa Caudium castra quam potest occultissime locat. Inde ad Calatiam, ubi iam consules Romanos castraque esse audiebat, milites decem pastorum habitu mittit pecoraque diuersos alium alibi haud procul Romanis pascere iubet praesidiis; ubi inciderint in praedatores, ut idem omnibus sermo constet legiones Samnitium in Apulia esse, Luceriam omnibus copiis circumsedere, nec procul abesse quin ui capiant. Iam is rumor ante de industria uolgatus uenerat ad Romanos, sed fidem auxere captiui eo maxime quod sermo inter omnes congruebat. Haud erat dubium quin Lucernis opem Romanus ferret, bonis ac fidelibus sociis, simul ne Apulia omnis ad praesentem terrorem deficeret: ea modo, qua irent, consultatio fuit. Duae ad Luceriam ferebant uiae, altera praeter oram superi maris, patens apertaque sed quanto tutior tanto fere longior, altera per Furculas Caudinas, breuior; sed ita natus locus est: saltus duo alti angusti siluosique sunt montibus circa perpetuis inter se iuncti. Iacet inter eos satis patens clausus in medio campus herbidus aquosusque, per quem medium iter est; sed antequam uenias ad eum, intrandae primae angustiae sunt et aut eadem qua te insinuaueris retro uia repetenda aut, si ire porro pergas, per alium saltum artiorem impeditioremque euadendum. In eum campum uia alia per cauam rupem Romani demisso agmine cum ad alias angustias protinus pergerent, saeptas deiectu arborum saxorumque ingentium obiacente mole inuenere. Cum fraus hostilis apparuisset, praesidium etiam in summo saltu conspicitur. Citati inde retro, qua uenerant, pergunt repetere uiam; eam quoque clausam sua obice armisque inueniunt. Sistunt inde gradum sine ullius imperio stuporque omnium animos ac uelut torpor quidam insolitus membra tenet, intuentesque alii alios, cum alterum quisque compotem magis mentis ac consilii ducerent, diu immobiles silent; deinde, ubi praetoria consulum erigi uidere et expedire quosdam utilia operi, quamquam ludibrio fore munientes perditis rebus ac spe omni adempta cernebant, tamen, ne culpam malis adderent, pro se quisque nec hortante ullo nec imperante ad muniendum uersi castra propter aquam uallo circumdant, sua ipsi opera laboremque inritum, praeterquam quod hostes superbe increpabant, cum miserabili confessione eludentes. Ad consules maestos, ne aduocantes quidem in consilium, quando nec consilio nec auxilio locus esset, sua sponte legati ac tribuni conueniunt militesque ad praetorium uersi opem, quam uix di immortales ferre poterant, ab ducibus exposcunt.

                                     Montesarchio: particolare del cratere t. 1005

Querentes magis quam consultantes nox oppressit, cum pro ingenio quisque fremerent.

Ne Samnitibus quidem consilium in tam laetis suppetebat rebus; itaque uniuersi Herennium Pontium, patrem imperatoris, per litteras consulendum censent… Is ubi accepit ad Furculas Caudinas inter duos saltus clausos esse exercitus Romanos, consultus ab nuntio filii censuit omnes inde quam primum inuiolatos dimittendos. Quae ubi spreta sententia est iterumque eodem remeante nuntio consulebatur, censuit ad unum omnes interficiendos.

Nec grauatus senex plaustro in castra dicitur aduectus uocatusque in consilium ita ferme locutus esse, ut nihil sententiae suae mutaret, causas tantum adiceret: priore se consilio, quod optimum duceret, cum potentissimo populo per ingens beneficium perpetuam firmare pacem amicitiamque; altero consilio in multas aetates, quibus amissis duobus exercitibus haud facile receptura uires Romana res esset, bellum differre; tertium nullum consilium esse. Cum filius aliique principes percontando exsequerentur, quid si media uia consilii caperetur, ut et dimitterentur incolumes et leges iis iure belli uictis imponerentur, "ista quidem sententia" inquit "ea est, quae neque amicos parat nec inimicos tollit. Seruate modo quos ignominia inritaueritis; ea est Romana gens, quae uicta quiescere nesciat. Viuet semper in pectoribus illorum quidquid istuc praesens necessitas inusserit neque eos ante multiplices poenas expetitas a uobis quiescere sinet." neutra sententia accepta Herennius domum e castris est auectus.

Et in castris Romanis cum frustra multi conatus ad erumpendum capti essent et iam omnium rerum inopia esset, uicti necessitate legatos mittunt, qui primum pacem aequam peterent; si pacem non impetrarent, uti prouocarent ad pugnam. Tum Pontius debellatum esse respondit; et, quoniam ne uicti quidem ac capti fortunam fateri scirent, inermes cum singulis uestimentis sub iugum missurum; alias condiciones pacis aequas uictis ac uictoribus fore: si agro Samnitium decederetur, coloniae abducerentur, suis inde legibus Romanum ac Samnitem aequo foedere uicturum; his condicionibus paratum se esse foedus cum consulibus ferire; si quid eorum displiceat, legatos redire ad se uetuit.

Hora fatalis ignominiae aduenit, omnia tristiora experiundo factura quam quae praeceperant animis. Iam primum cum singulis uestimentis inermes extra uallum exire iussi; et primi traditi obsides atque in custodiam abducti. Tum a consulibus abire lictores iussi paludamentaque detracta; tantam <id> inter eos qui paulo ante [eos] exsecrantes dedendos lacerandosque censuerant miserationem fecit, ut suae quisque condicionis oblitus ab illa deformatione tantae maiestatis uelut ab nefando spectaculo auerteret oculos.

Primi consules prope seminudi sub iugum missi; tum ut quisque gradu proximus erat, ita ignominiae obiectus; tum deinceps singulae legiones. Circumstabant armati hostes, exprobrantes eludentesque; gladii etiam plerisque intentati, et uolnerati quidam necatique, si uoltus eorum indignitate rerum acrior uictorem offendisset. Ita traducti sub iugum et quod paene grauius erat per hostium oculos.

BENEVENTUM

De Caudio à Bénévent le chemin n'est pas long: "Tendimus hinc recta Beneventum".

À Bénévent nous prenons logement dans un bistrot: "ubi sedulus hospes / paene macros arsit dum turdos versat in igni: / nam vaga per veterem dilapso flamma culinam / Vulcano summum

                                                   Benevento : Teatro romano

properabat lambere tectum. / Convivas avidos cenam servosque timentis / tum rapere, atque omnis restinguere velle videres" (Horatius, Sermonum liber primus, 5, 71-76). La cuisine va à feu et tous ils ont un grands à faire pour éteindre les flammes et sauver le dîner.

Benevento, per la sua posizione strategica e le condizioni ambientali è  un polo di attrazione per le popolazioni dell’Appennino meridionale. Importante centro sannita, Benevento, divenuta colonia romana nel 268 a. C., cresce di importanza di pari passo con la potenza romana: nel 90 a.C., con la promulgazione della Lex Iulia, diventa Municipium e si sviluppa con l'arrivo di altri coloni quando a reggere le sorti di Roma era Augusto.

It lies between the rivers Calore and Sabato, ca. 65 km E-NE of Naples and was once the chief center of a Samnite tribe, almost certainly the Hirpini, who called it Malventum or something similar. The Romans fought their last battle against king Pyrrhus nearby (275 B.C.) and then made the place a Latin colony with the more auspicious name of Beneventum (268). Beneventum remained staunchly loyal in the second Punic (218-201) and Social (91-87) wars. About 90 it became a municipium and in 42 B.C. a Colonia.

Benevento : Arco di Traiano

Bénévent, ville des Sanniti, est célèbre pour les sorcières. Dans le bistrot les hôtes discutent, ils parlent entre eux. Un monsieur, à côté de ma table, regarde la patronne (regina cauponae) et il me fait signe de me taire. La femme est une sorcière: "At ille, digitum a pollice proximum ori suo admovens, et in stuporem attonitus: -Tace, tace -inquit- ;et circumspiciens tutamenta sermonis, -Parce -inquit- in feminam divinam, ne quam tibi lingua intemperante noxam contrahas...-Saga -inquit- et divina, potens caelum deponere, terram suspendere, fontes durare, montes diluere, Manes sublimare, Deos infimare, sidera extinguere, Tartarum ipsum illuminare".

Il  raconte des histoires de magie: "Amatorem suum, quod in aliam temerasset, unico verbo mutavit in feram castorem...Cauponem quoque vicinum atque ob id aemulum deformavit in ranam, et nunc senex ille, dolio natans vini sui, adventores pristinos in faece submissus officiosis roncis raucos appellat. Alium de Foro, quod adversus eam locutus esset, in arietem deformavit, et nunc aries ille causas agit. ( Apuleio, Metamorphoseon, I, 8-9 ).

Il monumento simbolo di Benevento é il bellissimo arco onorario ad un solo fornice; lo ha fatto costruire l’imperatore Traiano per commemorare l'apertura nel 114 d.C. della Via Appia Traiana, che varia il tracciato della Regina Viarum e accorcia di alcune miglia la strada per Brindisi.

Questo arco (è riportato nella nostra guida) costituisce il più grande esempio del rilievo storico romano nel II secolo d.C. e la più completa rappresentazione  di un trionfo romano, quello appunto di Traiano sui Daci nel 107 d.C. .Il lato verso la città  comprende opere e scene di pace, mentre quelle verso la campagna comprende scene militari.

La Via Traiana, che segue il tracciato di una via più antica, permette di collegare più rapidamente la Campania con la Puglia e quindi l'Italia con i principali porti d'imbarco per l'Oriente. Rispetto alla Via Appia questa strada di variante fa risparmiare un giorno di viaggio per andare a Brindisi.

A key communications center, Beneventum has always been a large town. Roman roads radiated from it in all directions: N, via Bovianum to Aesernia (the Via Minucia?); S, via Abellinum to Salernum; E, via Venusia to Brundisium, and W, via Capua to Rome (the Via Appia). The emperor Trajan (98-117) built another road to Brundisium by way of Aequum Tuticum, and this Via Traiana replaced the Appia as the main highway to the E.

Juliette, memore dei graffiti e delle iscrizioni che ha visto a Pompei, all’insaputa di tutti noi sfila dalla sua chioma una specie di spillone che porta per tenere raccolti i lunghi capelli e si mette a scrivere sul muro dietro di lei:

Nihil durare potest tempore perpetuo:

cum bene sol nituit, redditur oceano,

decrescit Phoebe, quae modo plena fuit,

ventorum feritas saepe fit aura levis.

(CIL IV 9123)

Il racconto delle streghe ci mette una certa agitazione. Perché molti si dilettano di fare malefici contro i loro nemici. Come quella donna che ha raccomandato agli dei infernali le sue odiate conoscenti: Te rogo qui infer/nales partes tenes com/mendo tibi Iulia(m) Faustil/la(m) Marii filia(m) ut eam cele/rius abducas et ibi in num/merum tu (h)a[b]ias (CIL VIII,12505). Almeno così abbiamo saputo da un amico che l’anno passato era ritornato da un viaggio in Africa.

L’oste si accorge del nostro imbarazzo e si avvicina. Il suo accento latino è particolare. Gli domando: “Il vostro latino ha un accento particolare. Perché anche gli altri del luogo hanno una particolare cadenza quando parlano. Mi saprebbe dire il motivo di ciò?”. Il padrone della locanda, un uomo nerboruto, capelli corvini, di età sulla quarantina, si asciuga le mani con il grembiule che tiene davanti e accennando un sorriso così dice: “Noi parliamo in casa la lingua dei nostri antenati Oschi, ma in pubblico dobbiamo comunicare anche con gente non del posto e siamo perciò obbligati a parlare in latino; ma il nostro latino risente della lingua familiare osca. Molte parole  perdono a volte le vocali finali, le sillabe finali, perciò noi diciamo Arpinàs, Samnìs, nostràs invece di Arpinā(ti)s, Samnī(ti)s, nostrā(ti)s. Per non parlare poi delle seconde persone degli imperativi  dei verbi duco, facio, dico e loro composti. E siamo soliti dire al perfetto fumàt, audìt invece di fuma(vi)t, audi(vi)t”. Ci stupisce un poco la sua conoscenza della grammatica; ma lui ha molta più voglia di parlare della sua caupona e della sua attività commerciale. E infatti subito aggiunge con un certo compiacimento: “Vi vorrei narrare  delle gesta, degli uomini, l’arme e gli accadimenti che  si sono succeduti nelle nostre terre, e  parlarvi anche di me stesso, modesto proprietario di caupona. Ma ci vorrebbe tutta la notte. Mi preme, però, dirvi almeno solo questo:  dentro e fuori delle mura della mia modesta caupona si sono riposati e si rifocillati mangiando ogni bene delle nostre terre e bevendo i nostri vini, che delle nostre terre sono orgoglio senza fine. Vi dirò ancora che qui viene servito, insieme alle libarie, un vino che viene prima riscaldato e dopo bevuto freddo, che tutti dicono sia un vino portentoso, che dà forza a chi ne beve. Di questo vino, io ne custodisco la ricetta che dopo vi dirò, e molto ho dovuto faticare per ottenerla dall’ oste  che gestiva prima di me la taverna, molto mi costò di lavoro, ben dieci botti di legno buono della capacità di due cullei   ognuna [il culleus equivaleva a circa 480 litri]”.

Tullia si fa coraggio e chiede notizie delle streghe: “Ma è proprio vero quello che ho sentito poco fa da quel signore forestiero?”. E l’oste con un pizzico di saccenteria: “La nostra città di Benevento è conosciuta perché le streghe, come posso dire, sono di casa. Perché a queste donne, le streghe, basta pronunciare la formula magica:                                  

“….unguento unguento

mandame alla noce de Benevento supra

acqua et supra vento”.

Si vuole che con queste parole le streghe di tutta Europa si rechino qui a Benevento

per radunarsi a convegno intorno ad un secolare albero di noce. E questo avviene ogni anno nella notte del solstizio d’estate, ante diem nonum kalendas Quintiles,  per uno dei loro sabba. Streghe e stregoni arrivano al sabba unti con il grasso del Diavolo (grasso dei bambini bolliti) per non graffiarsi salendo nel camino della propria casa e levarsi in volo. Questo unguento talvolta li trasforma in animali o in mostri. Arrivano in volo su bastoni, conocchie, scope o ceppi che si trasformano in mostri o animali se unti con unguenti diabolici”.

Silvie esclama: “Non ci posso credere! E’ vero che gli uomini ci dipingono, noi donne, come dei diavoli, ma queste trasformazioni mi sembrano pure fantasie”.

“A dire il vero –dice con un tono più scanzonato l’oste- di sicuro è che in quella notte del solstizio noi raccogliamo le noci, ancora tenere, dall’albero. La noce rappresenta l’uomo, con uno scheletro interno fragile (ossa) e un succo da estrarre (sangue). Lo possiamo considerare un simbolo della supremazia delle streghe sugli uomini.

In questa notte  si raccolgono i malli di noce per confezionare un liquore particolare che noi chiamiamo “nocino”, una tradizione  in molte famiglie campane. Si prendono ventiquattro noci fresche, che in quel punto della loro maturazione sono solo mallo; si spaccano in quattro parti e si mettono in infusione in due sextariis di vino bianco (alcool). Dopo quaranta giorni si tolgono le noci e si aggiunge al vino, che è diventato di colore marrone scuro, dello sciroppo. C’è chi vi aggiunge  l’orzo tostato ( il caffè), chi vi aggiunge aromi e spezie. Si ottiene in ogni modo una bevanda  gradevole e digestiva”.

AD TRIVICUM

Benevento dista appena quindici miglia da Aeclanum, che è la prima città che si incontra superato il fiume Calore. La via giunge cosi a Ponte Rotto toccando la storica località del Cubante, dove, lungo il suo tracciato si scorgono le pietre miliari. Il Ponte Rotto (ponte Appiano) sul Calore dista 10 miglia da Benevento. Questo da testata a testata misurava circa 150 metri ed è a schiena d'asino, con sette piloni di cui tre in acqua e quattro sul terreno. Ogni arco misura 14 metri di luce e 5,5 metri di larghezza. La carreggiata è di circa 4 metri.

                                              Via Appia: ponte sul fiume Calore

Mentre guardiamo estasiati i campi coltivati che si estendono di qua e di là della strada punteggiati di ville rustiche e con i contadini tutti intenti alla raccolta del grano, Juliette richiama la nostra attenzione: “Guardate là, spunta qualcosa dal terreno!”.

Nelle immediate vicinanze, a pochi passi da noi, affiorano dal terreno appena smosso dalla zappa del contadino i resti di una statua di marmo senza la testa. Si tratta di un uomo seduto, forse una divinità. Ci chiediamo come mai la statua sia finita lì, abbandonata e sepolta dalla terra. Tullia per celia dice: “Vuoi vedere che l’hanno portata le streghe?”. Scoppiamo tutti in una fragorosa risata.

                                                         

Cubante: statua            

              acefala                                                    

                                                          

Aeclanum è una graziosa cittadina, che ha fatto la sua fortuna per la posizione privilegiata sulla Via Appia quale mansio con i suoi alberghi e con i suoi mercati. C’è il forum pequarium, il macellum, ma anche il foro, il teatro. Gli eclanesi sono molto grati agli imperatori romani che si sono preoccupati della manutenzione della Via Appia.

Benché piccola, la città è cosmopolita. Per la strada abbiamo sentito parlare lingue anche straniere. E, persone bene informate, ci dicono che a poca distanza dalla città c’è la statio ad Matrem Magnam, dedicata a Cibele, madre degli dei. E uno poi ci mostra una targa di bronzo con su scritto: Deo aeter/no Aecla/nia Prim/itiva vot(um) / l(ibens) s(olvit) (CIL IX 1092) e ci spiega che la dedica è al “dio eterno”  della religione siriana.

L’influsso della vicina città di Benevento si percepisce nell’organizzazione stessa della vita cittadina, sociale ed economica: l’attenzione riposta nel tenere efficiente la strada per la città sannita ne è una riprova.

Il livello culturale della città non è da meno di quello delle altre attività. Fuori dalle mura lungo la strada c’è il sepolcro di un poeta eclanese. Tullia legge la lunga iscrizione incisa sulla tomba:

D(is) M(anibus) / M(arco) Pomponio M(arci) fil(io) M(arci) n(epoti) M(arci) pron(epoti) / M(arci) abn(epoti) Cor(nelia) Bassulo / IIvir(o) q(uin)q(ennalis) / ne more pecoris otio transfungere[r] / Menandri paucas vorti scitas fabulas / et ipsus etiam sedulo finxi novas / id quale qualest chartis ma[n]datum diu / verum vexatus animi curis anxiis / non nullis etiam corpo[ris dol]oribus / utrumque ut esset taed[i]o[sum(?) ultr]a(?) modum / optatam mortem sum pot[itus(?) ea(?)] mihi / suo de more cuncta [dat(?) lev]amina(?) / vos in sepulchro [h]oc [elog]i[um(?) in]cidite(?) / quod sit docimento post FO[3]Q[3 omn]ibus / inmodice ne quis vitae sco[pulis hae]reat(?) / cum sit paratus portus eiac[ulant]ibus(?) / qui nos excipiat ad quiet[em perpet]em / set iam valete donec vi[vere exped]it / Cant(ria) Long(ina) marit(o) opt(imo) b(ene) m(erenti) f(ecit). (CIL IX 1164)

“Si tratta –aggiungo io- di Marco Pomponio Bassulo, duoviro quinquennale, che è morto suicida; ha tradotto alcune commedie di Menandro e lui stesso ne ha composte di nuove e le ha pubblicate… certamente anche fatte rappresentare se non a Benevento, forse nella sua città”.

Mentre andiamo per la strada che conduce verso le terme,“A chi appartiene quella villa?” esclama Silvie. La casa è di bell’aspetto e molto grande di dimensione, probabilmente avrà due giardini interni con peristilio. “Buon uomo –chiediamo quasi in coro- ci può dire di chi è quella domus?”. E il signore, alquanto indaffarato a pulire davanti alla sua abitazione, “E’ la casa degli eredi di Minazio Magio…non lo sapete!”.

Tutte e tre le amiche si rivolgono a me con aria di interrogazione. “Perdonate la mia distrazione. Non vi ho detto che Velleio Patercolo ha avuto parenti eclanesi per parte di madre: Italicorum autem fuerunt celeberrimi duces Silo Popaedius, Herius Asinius, Insteius Cato, C. Pontidius, Telesinus Pontius, Marius Egnatius, Papius Mutilus.  Neque ego verecundia domestici sanguinis gloriae quidquam, dum verum refero, subtraham: quippe multum Minatii Magii, atavi mei, Aeculanensis, tribuendum est memonae, qui nepos Decii Magii, Campanorum principis, celeberrimi et fidelissimi viri, tantam hoc bello Romanis fidem praestitit, ut cum legione, quam ipse in Hirpinis conscripserat, Herculaneum simul curn T. Didio caperet, Pompeios cum L. Sulla oppugnaret Compsamque occuparet:  cuius de virtutibus cum alii, tum maxime dilucide Q. Hortensius in annalibus suis rettulit . Cuius illi pietati plenam populus Romanus gratiam rettulit ipsum viritim civitate donando, duos filios eius creando praetores, cum seni adhuc crearentur. (Velleius Paterculus, Historiae Romanae libri duo, II, 16)

                                                   Aeclanum: strada lastricata

Già, la famiglia Magia!  E illustro alle mie amiche l’importanza di questa gens, che si è mostrata sempre fedele a Roma, mentre in genere le popolazioni del Sannio si andavano alleando ai nemici di turno dei Romani. Mi viene in mente, ma può essere una semplice omonimia, che la madre del poeta Virgilio si chiamava Magia Polla. Che sia anch’essa della stessa famiglia? Chissà.

Silvie, che camminava qualche passo avanti a noi altri, si ferma di scatto e indica in un piccolo spiazzo un’ara di tufo. “Non capisco –dice- che cosa vi è scritto”. Ed ha ragione; perché sull’ara è incisa una scritta in lingua osca: SIVÍIÚ MAGIÚ MEFIT. In latino suonerebbe così Sevia Magia Mefiti. (Mefit è abbreviazione di Mefiteí dativo): una donna della famiglia Magia di nome Sevia ha dedicato questo altare alla dea Mefite.

Sulla soglia di una casa accanto c’è una signora anziana, che vedendoci attenti ad osservare l’ara,  si avvicina e si presenta: “Sono Claudia Ianuaria la custode di questo sacello alla dea Mefite”. Le risponde Tullia: “Stiamo facendo un viaggio nella Campania con le nostre amiche, che vengono dalla Gallia. Ci ha incuriosito questo luogo e ci siamo fermati a leggere la scritta che è incisa sull’ara…Ma chi è Mefite?”. “Dovete sapere –risponde l’anziana signora-  che Mefite è una dea .Il suo nome in osco  deriva forse da "medio-dluitis", donde "mefifitis" e quindi Mefitis, cioè "colei che fuma nel mezzo", altri dicono che il nome  in origine fosse "Medhu-io" cioè "colei che si inebria". Mefite è una divinità pacifica, ma ha il potere di fare da tramite, cioè di presiedere al passaggio, di personificare colei che presenzia ai dualismi come la vita e la morte, il giorno e la notte, il caldo ed il freddo, il regno dei vivi e l'oltretomba. La stessa sorgente è il simbolo della forza dell'acqua che dalla terra sgorga e quindi passa all'aria, e la dea Mefite presenzia questo passaggio. Essa riassume in sé le valenze, celesti ed ultraterrene, quelle stesse che i Greci attribuiscono  ad Afrodite, Demetra e Persefone.
Tanto e tanto tempo fa Mefite era la dea di questi luoghi protettrice delle sorgenti,  ma anche degli armenti, dei campi e della fecondità. Largisce i benefici derivanti dall'utilizzo delle acque termali e quindi solforose con le quali dà la "sanatio",  per la cura di malattie degli uomini e degli animali.

Perché non andate a visitare il suo santuario non molto lontano da qui nella Valle di Ansanto?”.

Ringraziamo la donna delle notizie e del suggerimento, che volentieri accogliamo.

Leggiamo nella nostra guida che la Valle d’Ansanto è un vulcano nell’ultima fase di estinzione e consiste in un laghetto del perimetro di 48 metri circa e della profondità di 2, nel quale l’acqua, di color cupo e melmosa, ribolle, non per alta temperatura, ma per lo sprigionarsi violento di anidride carbonica e di acido solfridico, che producono asfissia nei piccoli animali e non sono senza pericolo per l’uomo; perciò conviene evitare i gas mettendosi sopra vento. Anche la vegetazione intorno al lago è impedita dalle esalazioni del gas.

La curiosità è più forte della paura. Decidiamo di visitare questo luogo infernale, che il poeta Virgilio ha descritto nell’Eneide.

La guida ci dice che antichi luoghi di culto dedicati alla Mefite sono  in molte parti d'Italia. A Cremona vi è un tempio dedicato a Mefite ( Tacito, Hist. III, 33). Di esso viene fatta menzione a proposito dell'eccidio di Cremona, un luttuoso episodio della guerra civile del 69 d.C.: "per quadriduum Cremona suffecit, cum omnia sacra profanaque in igne considerent, solum Mefitis templum stetit ante moenia, loco seu numine defensum" (... mentre tutti gli edifici sacri e profani sprofondavano tra i tizzoni, un tempio solo restò in piedi, quello di Mefite dinanzi alle mura, difeso dall'ubicazione o dalla stessa dea). A Laus Pompeia (oggi Lodivecchio) L. Cesio offre alla dea un’ara: MEFITI /L. CAESIUS /ASIATICUS /VI VIR FLAVIALIS /ARAM ET MENSAM IIII /DEDIT L.D.D.D. (CIL V 6353). Nelle vicinanze di Potentia (oggi Rossano di Vaglio ) c’è il santuario  di tipo greco nella struttura dell'edificio. Vi si conservano iscrizioni in lingua locale, che indicano la dedica a Mefite Utiana, dea delle acque. Infatti in tre iscrizion il nome della divinità è accompagnato dal singolare attributo di "Utiana", ( appellativo che potrebbe connettersi con l'umbro "utur" delle Tavole Eugubine, corrispondente al greco "ύδωρ" cioè "acqua"). Sempre in Lucania un'iscrizione su di un frammento ritrovato nell'area sacra di Grumentum  oltre a documentare il culto di Mefite   associa al nome della dea l'attributo non del tutto chiaro di «Fisica».

E Cicerone nel De Divinatione, I, 79: Nam terrae vis Pythiam Delphis incitabat, naturae Sibyllam. Quid enim? Non videmus quam sint varia terrarum genera? Ex quibus et mortifera quaedam pars est, ut et Ampsancti in Hirpinis et in Asia Plutonia quae vidimus, et sunt partes agrorum aliae pestilentes, aliae salubres, aliae quae acuta ingenia gignant, aliae quae retusa: quac omnia fiunt et ex caeli varietate et ex disparili adspiratione terrarum.

                                                 Valle d’Ansanto: incisione del 1783

Quasi per toglierci l’impressione di solitudine e di paura il panorama della valle ci accoglie con un folto ciuffo di ginestra in fiore. E’ una pianta nana, diversa da quella alta e profumata che inghirlanda tanti poggi solitari ed anfratti isolati.

Il punto di sosta ci dà con la sicurezza del respiro la padronanza sul senso di paura, quando nella valle in basso non spira il vento favorevole. La valle, infatti, nel suo punto più basso si rende pericolosissima tanto che la gente del luogo la chiama “vado mortale”, perché se non spira il vento di ponente uomini ed animali vi trovano la morte.

Valle d’Ansanto: il lago

Se scendi vicino al lago e ti fermi a guardare intorno vedrai un biancore di terra arida accentuata da chiazze gialle. Non c’è segno di vegetazione se non lontano. Qui predomina il rumore dell’acqua che ribolle sotto la spinta di una colonna ascendente di gas compresso che soffia sotto il lago, altrove soffia da buche grosse, altrove ancora da forellini quasi invisibili. Perciò è rumore in qualche modo armonico, che va dal rauco al sibilo. Ma non è un soffio innocuo. Lo zolfo, nelle sue diverse componenti, la fa da padrone. Una eccessiva imprudenza potremmo pagarla cara: un leggero brivido bloccherebbe i nostri passi e potremmo cadere senza possibilità di scampo.

Guardiamo dall’alto il lago in basso che ribolle e Juliette prende il libro VII dell’Eneide e legge i versi 563-571:

est locus Italiae medio sub montibus altis,
nobilis et fama multis memoratus in oris,
Amsancti ualles; densis hunc frondibus atrum               
urget utrimque latus nemoris, medioque fragosus
dat sonitum saxis et torto uertice torrens.
hic specus horrendum et saeui spiracula Ditis
monstrantur, ruptoque ingens Acheronte uorago
pestiferas aperit fauces, quis condita Erinys,               
inuisum numen, terras caelumque leuabat.

E Plinio il Vecchio ricorda il luogo nella sua Naturalis Historia , II, 208: nonnumquam et homini, ut in Sinuessano agro et Puteolano! spiracula vocant, alii Chaeronea, scrobes mortiferum spiritum exhalantes, item in Hirpinis Ampsancti ad Mephitis aedem locum, quem qui intravere moriuntur; simili modo Hierapoli in Asia, Matris tantum Magnae sacerdoti innoxium. aliubi fatidici specus, quorum exhalatione temulenti futura praecinant, ut Delphis nobilissimo oraculo. quibus in rebus quid possit aliud causae adferre mortalium quispiam quam diffusae per omne naturae subinde aliter atque aliter numen erumpens?

Valle d’Ansanto: Xoanon

Représentation primitive d'une divinité,

simple morceau de bois plus ou moins

grossièrement sculpté, équivalent grec du

totem.

                                                                     

                                    

Intorno a noi ci sono dei pastorelli intenti a pascolare le pecore, ci sorridono. Si avvicinano vogliono conoscerci : non vedono spesso gente forestiera da quelle parti. Ci chiedono da dove veniamo, ma  in un latino impastato di dialetto osco. Ci parlano della loro vita, ma non somigliano né a Titiro né a Melibeo. Dice il più giovane:“Veniamo a pascolare vicino alla Mefite perché le pecore brucano l’erba impregnata di questo gas e il latte ha un sapore diverso. Che buon formaggio si fa! Il fango che sta giù vicino al lago lo usiamo per guarire le pecore quando hanno delle malattie della pelle”. E l’altro, quasi con le stesse sembianze del compagno, aggiunge: “Quando fa freddo, però, restiamo a casa e la nonna ci racconta tante storie fantastiche…Qualche volta ci mettono anche paura. Sentite questa: lo scazzamauriello è una specie di folletto un pò dispettoso ma buono; è un portafortuna; si dice che sia lo spirito di un bambino morto appena venuto al mondo. Questo spiritello secondo alcune persone si diverte a lanciare sassi e a mettere fuori posto gli oggetti in casa, ma anche a farli cadere per terra”.

Non sembra vero che il poeta abbia potuto immaginare che l’ Ampsanti vallis fosse la porta degli Inferi, a contemplare l’aspetto veramente bucolico del paesaggio. Dobbiamo affrettarci perché trascorreremo la notte in una locanda di Trivicum, almeno così ci aveva preannunciato l’oste a Benevento.

Tunisi – Museo del Bardo : Virgilio tra le muse Clio e Melpomene

In lontananza si vedono i monti della Daunia, ma noi non andremo nella Puglia; guarderemo dall’alto la pianura che si presenterà ai nostri sguardi domani mattina. Siamo nel cuore del territorio irpino. Hirpini itaque, gens Italiane in Samnio ad fines Campaniae, Lucaniae et Apuliae, in regione montana, irrigata a fluviis Calore et Aufido, ita dicti, uti fertur, ab hirpo seu lupo, quo duce illuc migraverunt, (alii sentiunt Hirpinos ab hirco dictos). Cum Samnitibus contra Romanos bella gesserunt. Hi tamen post Cannensem pugnam Hannibalis partes secuti sunt, nec ante ann.209. Romanorum dominazioni se submiserunt usque ad bellum sociale. Augustus denique territorium Hirpinorum regioni secundae (Apuliae et Calabriae) adnexuit, via Appia et Trajana intersectum.

Su di un monte che sovrasta la Valle di Ansanto si scorgono delle costruzioni. “Sarà un municipium – si chiede Silvie- ? Qui in lontananza ha l’aspetto di un oppidum. Posto lì su quel cocuzzolo”. La guida turistica non fornisce utili indicazioni, dice solamente: Municipium, aliunde, ignotum. Tutto il territorio apparteneva a Caius Quinctius Valgus, che fu a suo tempo seguace di Silla.

At hoc Valeria lex non dicit, Corneliae leges non sanciunt, Sulla ipse non postulat. Si isti agri partem aliquam iuris, aliquam similitudinem propriae possessionis, aliquam spem diuturnitatis attingunt, nemo est tam impudens istorum quin agi secum praeclare arbitretur. Tu vero, Rulle, quid quaeris? Quod habent ut habeant? Quis vetat? Vt privatum sit? Ita latum est. Vt meliore <iure> tui soceri fundus Hirpinus sit sive ager Hirpinus--totum enim possidet--quam meus paternus avitusque fundus Arpinas? Id enim caves” (Cic., De Lege Agraria.3, 8).

E’ sera quando giungiamo nella caupona. L’oste si fa sulla soglia e ci dà il benvenuto: “In questa caupona si fermò tempo fa il poeta Orazio e rimase così contento dell’ospitalità ricevuta che se ne ricordò nella sua famosa Satira”. Silvie mi si avvicina e sottovoce mi dice. “Costui sta dicendo delle sciocchezze. Il poeta Orazio ha scritto ben altro:

incipit ex illo montis Apulia notos
ostentare mihi, quos torret Atabulus et quos
nunquam erepsemus, nisi nos vicina Trivici
villa recepisset lacrimoso non sine fumo,               
udos cum foliis ramos urente camino.

Non solo, ma attese anche invano nella sua camera la cameriera della locanda, che forse gli aveva dato un appuntamento galante”.

Dalle streghe di Benevento, agli Inferi della Valle d’Ansanto… ci manca solo qualche altra diavoleria da provare. La cameriera, che non è una discendente di quella che diede l’appuntamento disatteso al poeta Orazio, si trattiene con noi a parlare di spiriti. Paese che vai credenze che trovi. La lasciamo parlare.

“Dovete sapere che oltre agli spiriti buoni vi sono anche quelli cattivi, come il caso dell'Uria. Non si conosce cosa sia questa Uria di certo questa potenza malefica si avverte nella notte, quando all'improvviso ci si sente toccati sulla punta dei piedi e si rimane immobilizzati, senza riuscire nemmeno a gridare e con la spaventosa sensazione di avere addosso un macigno. Tuttavia ci sono degli esorcismi per impedire a questa ombra di entrare in casa: basta mettere davanti all'uscio una scopa di migli o una spazzola. L'Uria infatti, è irresistibilmente attratta da questi oggetti e si ferma a contarne tutti i fili”.

Ci spiega poi il malocchio, altro malefizio ad opera di gente senza scrupoli che vuole il male degli altri: “ Quando si vuole colpire qualcuno con il malocchio si prende l'impronta del piede impressa nel terreno e la si mette chiusa in uno straccio lasciandola affumicare in un camino. Chi è colpito da tale forma di malocchio si ammala o si annerisce come la propria impronta affumicata.... quando

qualcuno avverte dei dolori pensando di essere oggetto di malocchi si procede a fare "l'uocchi": si prende un piatto con dell'acqua, si pronunciano le parole "schiattete uocchi" e  si fa gocciolare dell'olio nel piatto; se le gocce si allargano la persona è affetta da malocchio. Solo dopo il rituale magico i dolori passano”.

Per nostra fortuna la cena è stata buona: ci hanno servito del maiale allo spiedo ottimo…o forse era cinghiale. Il pane poi, una squisitezza. Ne avremmo mangiato tanto, se il vino fosse stato buono. Poi al chiarore di una lucerna saliamo le scale che portano alle stanze dove ci aspetta un letto non troppo comodo, ma con le lenzuola fresche di bucato.

estimonianzeSou

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